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La scelta di Patricia, donatrice di ovuli

Patricia ha 24 anni. Capelli castani mossi, sguardo fiero. E’ volata a Milano da Valencia, dove vive, e continua ad accarezzarsi il vestito nero a pois mentre racconta un pezzetto della sua vita di giovane studentessa universitaria. Una storia che comincia con lei a bordo di un autobus, l’occhio che cade su un annuncio che promuove la donazione di ovuli. Suona più o meno così: “Dona ovuli, dona vita”. Patricia ci pensa, ne parla con un’amica che ha già iniziato il percorso (ma che alla fine non passerà i test per diventare ovodonatrice) e decide che sì, vuole farlo anche lei. Lo racconta come se fosse la cosa più normale del mondo: “Dono il sangue e ho aderito alla donazione di midollo osseo, cosa c’è di diverso? Nei primi due casi si può salvare una vita, con gli ovuli contribuisci a darla”.

“Ok – ammette – in Spagna è previsto un compenso intorno ai mille euro e questo aiuta, ma non è la molla. Non cercavo nulla in cambio. Semplicemente è gratificante pensare di poter aiutare un’altra donna, una coppia in un momento di difficoltà. Felice di aver contribuito”. La prima volta per lei è stato a 22 anni. “L’ho voluto io e mi sono presentata accompagnata da mia mamma nella clinica spagnola specializzata in riproduzione assistita”.
Patricia racconta la sua esperienza: ha donato due volte, la seconda su chiamata del centro. “Non mi sono mai pentita e lo rifarei di nuovo”, assicura. Un gesto che non le impedisce di sognarsi mamma: “Mi vedo madre di famiglia”, dice. In Spagna le donatrici devono seguire un iter di controlli molto rigido. Le candidate hanno un’età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’idoneità alla donazione viene stabilita in una prima fase attraverso un’intervista personale e un colloquio con lo psicologo. Chi supera questo primo ‘screening’ viene sottoposto ad accertamenti clinici: ecografia, visita ginecologica, esami del sangue. Solo il 30% passa alla fase successiva, quella dei controlli sul cariotipo e del test di compatibilità genetica per verificare se siano presenti alterazioni cromosomiche che potrebbero portare a malattie genetiche nei nascituri. “Scriniamo 600 patologie – spiega Daniela Galliano, direttrice di Ivi Roma – e il test si può fare anche all’uomo della coppia che chiede l’ovodonazione per evitare che si incrocino portatori sani”.

Ci sono delle regole precise “finalizzate a tutelare in tutto e per tutto non solo le coppie, ma anche la donatrice – chiarisce Antonio Pellicer, presidente del centro di infertilità Ivi di Valencia – E’ previsto che le ragazze possano sottoporsi a un massimo di 6 cicli, con un tetto massimo di 6 figli compresi i propri. Sicuramente il fatto che la donazione venga ricompensata è un incentivo, ma la cifra che viene corrisposta è limitata per evitare che l’ovodonazione venga vissuta come una ‘professione’. Quello che sostiene la pratica della donazione di ovuli in Spagna è anche un fattore culturale: il Paese è in generale primo per la donazione di organi in tutto il mondo. E il terzo punto fondamentale è l’anonimato”.

Patricia è una delle tante che hanno scelto di donare e con naturalezza dice che “è stato facile. L’unica cosa che mi è pesata un po’, da sportiva che pratica ‘crossfit’, è l’obbligo di dover stare ferma per i 4 giorni che precedono il prelievo degli ovociti. Per il resto nessun particolare fastidio”. Anche la stimolazione ovarica per Patricia ha un impatto limitato. “Un’iniezione con un ago piccolissimo per 10-12 giorni. Sei sempre monitorata. Il personale del centro ti prende per mano e ti segue in ogni fase. Senti solo un po’ di tensione all’addome come succede per il ciclo mestruale. E anche il giorno del prelievo alla fine vieni sedata e la procedura dura circa 20 minuti. Poi torni tranquillamente a casa”.

La mamma di Patricia ha appoggiato la scelta della figlia e ha deciso di starle vicino. Il passaparola fra coetanee ha fatto sì che anche altre amiche si siano decise a donare. “Domani una mia collega farà la prima visita”, racconta Patricia che lancia un messaggio anche alle ragazze italiane. “Donare ovuli non è costoso, ma gratificante. Fatelo, perché ne vale la pena”. Aiutare chi non può avere figli e affronta momenti “devastanti” tra speranze, solitudine e dolore per i fallimenti.

A pochi passi da Patricia, un’altra donna si racconta. Ludmilla è russa e vive in Italia da anni, a Brescia. Sulle sue gambe siede il suo piccolo di un anno e mezzo. Un ometto elegante nella sua giacchetta. Mamma e papà lo hanno cercato tanto. L’odissea di Ludmilla è cominciata a 31-32 anni. Prima di recarsi in Spagna a 37 anni, col marito aveva alle spalle 6 tentativi andati a vuoto. Sono passati da attese e delusioni, la loro stessa relazione è stata messa a dura prova. “Ho pensato di lasciare l’Italia, mio marito e scappare via, tornare in Russia portando con me i problemi. In quei momenti bui si crea una crepa anche nelle unioni più solide”. Ma per Ludmilla è tornato il sereno. La gravidanza è arrivata ed è filata via “senza complicazioni”, e ora con il marito non ha occhi che per il suo “gioiello”, come chiama il figlio tanto desiderato. “Negli ultimi anni i progressi nel campo della fecondazione assistita hanno raggiunto risultati davvero sorprendenti e il futuro fa ben sperare”.

fonte: adnkronos